Una Prefazione Semiotica

Ogni testo che si rispetti, come suggeriva il vecchio Bachtin, necessita di una cornice paratestuale che ne chiarisca l’orizzonte semantico e ne disegni i confini interpretativi. Quello che segue è un saggio sul complesso rapporto che intercorre tra la scrittura mistica e la speculazione filosofica nel medioevo maturo, un’analisi che prende le mosse da una figura che ha sfidato, seppur inconsapevolmente, le categorie ermeneutiche entro cui la tradizione accademica ha voluto confinare tanto la mistica quanto la filosofia.

Meister Eckhart (ca. 1260-1328), Meister der Prediger, come viene ricordato nelle cronache dell’ordine, rappresenta un caso esemplare di quella che potremmo definire una “retorica del negativo”, un’arte sottile di dire l’indicibile attraverso la strategia dell’oscuramento semantico. La sua opera, che oscilla perennemente tra la luminosità speculativa delle quaestiones parisienses e l’oscurità visionaria dei sermoni renani, ci offre uno specimen unico di quella che Eco stesso, nella sua Estetica di Dante, avrebbe definito come una “logica dell’ambiguità semantica”.

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Il Contesto Storico: Un Medioevo alla Deriva

È necessario, prima di addentrarci nell’analisi dei testi eckhartiani, situare la nostra figura entro quel complesso di trasformazioni culturali che caratterizzano il XIII e XIV secolo. Un’epoca, questa, in cui la tradizione scolastica raggiunge il suo apice speculativo con Tommaso d’Aquino, ma dove già affiorano crepe e contraddizioni che preannunciano, se non il crollo, quantomeno la crisi del sistema universitario.

Eckhart nasce in quella Turingia che, dalla figura di Alberto Magno in poi, rappresenta uno dei centri nevralgici della cultura domenicana. La sua formazione presso lo Studium generale di Colonia non è un dettaglio biografico trascurabile, ma un elemento strutturale che ne influenzerà perennemente il pensiero. Colonia, dopo tutto, è la città che ha ospitato Alberto Magno nei suoi ultimi anni, e lì dove la tradizione aristotelica ebbe la sua prima sistemazione sistematica in lingua latina.

Il suo percorso accademico ripercorre, con una precisione quasi geometrica, quello che era il cursus honorum domenicano: dalla lector sententiarum parigina al magister sacrae theologiae, passando attraverso gli incarichi amministrativi che lo portarono a Erfurt, Dresda, Colonia. Una carriera, la sua, che si sarebbe conclusa tragicamente con l’accusa di eresia nel 1326, accusa che portò alla condanna postuma di quindici delle sue proposizioni nella bolla In agro dominico del 1329.

L’Architettura Metafisica: Dell’Uno e dell’Essere

La prima quaestio parisiensis ci presenta un Eckhart che, pur muovendo dalle premesse aristoteliche, arriva a conclusioni che fanno vacillare l’intero edificio della metafisica scolastica. La questione, apparentemente innocua, riguarda la coincidenza di essere e pensiero in Dio. Eckhart risponde affermativamente, ma introducendo una distinzione che ribalta completamente i termini del problema.

Dio non è, come voleva la tradizione, primariamente “essere” (esse), ma “pensiero” (intelligere). È l’Uno, una realtà posta “molto al di là dell’essere”. Questa affermazione, apparentemente innocente, ha conseguenze devastanti. Se Dio è al di là dell’essere, non può essere considerato un “ente”, neppure il sommo ente. Egli sfugge a ogni categorizzazione ontologica, ogni tentativo di definizione ne tradisce l’essenza.

La ragione di questa posizione risiede nell’analisi dell’intelletto come “non ente”. L’universale, infatti, che è prodotto del pensiero, è per sua natura indeterminato, e quindi non può essere considerato un ente, che è sempre determinato. Se l’universale non è un ente, e il pensiero produce l’universale, allora anche il pensiero non può essere un ente. E se il pensiero non è un ente, tanto più non può esserlo l’Intelletto divino, che è causa prima di ogni pensiero.

Questa dottrina dell’Uno al di là dell’essere ha un che di paradossale, se pensiamo che nasce in un contesto universitario impregnato di aristotelismo. Ma Eckhart non era un rivoluzionario nel senso immediato del termine. Era, piuttosto, un erede problematico della tradizione, qualcuno che aveva portato alle estreme conseguenze certe premesse implicite nell’aristotelismo latino.

La Dottrina del Nulla: Dialettica della Creazione

Se l’Uno è al di là dell’essere, ne discende logicamente che tutto ciò che è creato non è, in senso proprio. “Solo Dio è, mentre tutto ciò che esiste è nulla”. Questa affermazione, che sembra destinata al misticismo più astratto, è in realtà il risultato di un ragionamento rigoroso.

Se solo l’Uno è, e le creature non partecipano all’Uno, allora non sono. Il processo della creazione, pertanto, non è un “fare dal nulla”, ma una “separazione e un depotenziamento della perfezione originaria”. La creazione, in questa prospettiva, è un allontanamento dall’unità, una frammentazione della pienezza originaria.

Ma qui emerge un paradosso che solo la mistica speculativa può risolvere. Se le creature sono nulla, come possono partecipare all’essere divino? La risposta di Eckhart è sottile: esse partecipano all’essere di Dio solo nella misura in cui sono, ma il loro essere non è loro, è di Dio. Separate da Dio, esse sono puramente e semplicemente nulla.

Questa dottrina del nulla creaturale non è una negazione dell’esistenza del mondo, ma una rivalutazione della sua natura ontologica. Il mondo esiste, ma la sua esistenza è di un ordine completamente diverso da quella di Dio. È un’esistenza derivata, partecipata, che esiste solo nella misura in cui partecipa dell’Essere divino.

Il Fondo dell’Anima: Topografia del Sacro

La topografia spirituale di Eckhart è estremamente precisa. Il punto di contatto tra l’umano e il divino non è la coscienza nel suo insieme, ma un luogo specifico dell’anima che lui chiama il “fondo dell’anima senza fondo” (Grund und Abgrund). Questa espressione, che suona quasi come un ossimoro, indica qualcosa che è al contempo profondo e senza fondo.

Il fondo dell’anima non è una delle potenze (memoria, intelletto, volontà), ma l’essere stesso dell’anima, ciò che le è più intimo e profondo. È descritto come una “stanza segreta” in cui la creatura non può entrare. La ragione di questa esclusività è chiara: solo Dio può accedere a questo luogo, e lo fa senza immagini e senza mediazione.

È qui che avviene quello che Eckhart chiama la “nascita del Figlio” nell’anima. Questa espressione, che sembra provenire da un contesto gnostico, è in realtà l’esito della più rigorosa speculazione mistica. Se Dio è al di là dell’essere e dell’immagine, l’anima deve diventare al di là dell’essere e dell’immagine per poterlo accogliere.

Ma come si raggiunge questo fondo? Attraverso un processo di svuotamento radicale, che rende l’anima capace di accogliere l’indicibile. Il fondo dell’anima, infatti, non è accessibile alle potenze della creatura, che sono sempre impegnate nella produzione di immagini e contenuti finiti.

Il Distacco: Tecnica della Negazione

Il metodo per raggiungere il fondo dell’anima è il distacco (Abgeschiedenheit), ma non si tratta della semplice rinuncia ascetica a cui ci hanno abituato le tradizioni mistiche orientali. Il distacco eckhartiano è una vera e propria tecnica spirituale, una “techne” nel senso antico del termine, che mira allo svuotamento radicale di ogni contenuto finito.

L’uomo deve distaccarsi, innanzitutto, dalle opere e dai contenuti finiti. Ogni opera, anche quella più pia, se compiuta per un fine esterno, rimane nel regno della finitezza e non può condurre all’incontro con l’Assoluto. Deve liberarsi dal timore e dal desiderio, che sono le emozioni che legano l’individuo alla propria volontà e alla propria individualità.

Ma il passo più radicale, quello che ha scandalizzato i suoi contemporanei e che ha portato alla sua condanna, è la necessità di distaccarsi persino da Dio. Non dal Dio reale, ovviamente, ma dall’immagine finita che l’uomo ha di Dio. Ogni rappresentazione di Dio, anche quella della Trinità, se intesa in modo creaturale, è un limite che impedisce l’unione con la Divinità indifferenziata.

Questo paradosso raggiunge la sua massima espressione nella celebre affermazione: “Per unirsi a Dio, bisogna liberarsi di Dio”. Non del Dio vero, ma dell’immagine finita di Dio che l’uomo ha costruito attraverso la sua ragione limitata.

L’Uomo Nobile: Paradigma dell’Unità

Colui che realizza questo cammino di svuotamento è l’“uomo nobile”. Questa espressione, che richiama la tradizione cabalistica e neoplatonica, indica l’individuo che ha realizzato in sé l’unità divina. Le sue caratteristiche sono paradossali per la mentalità moderna: agisce “senza perché”, non vuole nulla, ha esaurito le proprie facoltà finite.

Questo “agire senza perché” non è l’agire casuale o irrazionale, ma l’agire che scaturisce dall’unione con l’Uno. È l’azione che non ha più un fine esterno, perché il fine coincide con l’agire stesso. L’uomo nobile non agisce per ottenere qualcosa, ma agisce perché è diventato uno con colui che è.

La “staticità massimamente produttiva” dell’uomo nobile è, paradossalmente, più produttiva di qualsiasi attività finita. Mentre l’attività finita è sempre limitata e parziale, l’attività che scaturisce dall’unità è totale e completa. È l’attività del Logos, l’attività che crea senza sforzo.

Coerenza del Sistema: Una Mistica Speculativa

La distinzione tradizionale tra l’Eckhart filosofo e l’Eckhart mistico è, a ben guardare, una distinzione artificiale che non tiene conto della profonda coerenza del suo sistema. La sua mistica non è un’aggiunta sentimentale alla sua filosofia, ma la sua logica e necessaria conseguenza.

Se Dio è al di là dell’essere e dell’immagine, l’anima deve diventare al di là dell’essere e dell’immagine per unirsi a lui. Se l’Uno è senza modi e senza mediazione, l’anima deve diventare senza modi e senza mediazione per accoglierlo. Se la creatura è nulla in sé, l’anima deve riconoscere il proprio nulla per essere riempita dal Tutto.

La filosofia eckhartiana non è, pertanto, una filosofia dell’essere, ma una filosofia dell’Uno. Non è una filosofia che parte dalla realtà per giungere a Dio, ma una filosofia che parte da Dio per comprendere la realtà. È una filosofia che assume la forma di una mistica speculativa, dove ogni concetto filosofico ha il suo corrispettivo in una pratica spirituale.

Il Processo Storico: Una Condanna Provvidenziale

La radicalità di questo pensiero non poteva non portare a uno scontro con l’autorità ecclesiastica. La dottrina dell’uomo nobile, che agisce “senza perché” e si pone al di là delle opere, era in netto contrasto con la morale ufficiale della Chiesa medievale, fondata sulla distinzione tra bene e male, tra opera peccaminosa e opera meritoria.

L’accusa di eresia del 1326, basata principalmente sulle opere dell’ultimo periodo, fu la conseguenza naturale di questa radicalità. L’Opus tripartitum, che doveva essere la summa del pensiero eckhartiano, fu analizzato nei minimi dettagli, e le proposizioni più audaci vennero estratte e condannate.

La condanna postuma nella bolla In agro dominico del 1329 non fu, tuttavia, una smentita del pensiero eckhartiano, ma una sua conferma indiretta. Che una dottrina abbia causato tanto allarme da richiedere l’intervento del Papa dimostra che essa aveva toccato nervi scoperti, questioni fondamentali che la tradizione ufficiale non era pronta ad affrontare.

L’Eredità: Oltre l’Ortodossia

L’eredità di Eckhart non è quella di un pensatore ortodosso, ma quella di un “paradossale”, qualcuno che ha portato alle estreme conseguenze certi principi impliciti nella tradizione filosofica e religiosa. La sua influenza si estende ben oltre l’ambito ecclesiastico, raggiungendo i mistici renani, i filosofi idealisti tedeschi, i teologi dialettici contemporanei.

Il suo pensiero ci invita a riflettere sulla natura stessa della conoscenza religiosa. Se Dio è al di là dell’essere e dell’immagine, come possiamo conoscerlo attraverso concetti e rappresentazioni? La risposta di Eckhart è radicale: non possiamo conoscerlo, ma possiamo sperimentarlo attraverso lo svuotamento radicale di ogni conoscenza.

In un’epoca in cui la scienza e la tecnica sembrano aver esaurito ogni mistero, il pensiero di Eckhart ci ricorda che l’assoluto sfugge a ogni categorizzazione, che l’Uno rimane sempre al di là delle nostre pretese conoscitive. La sua lezione non è quella dell’ignoranza, ma quella dell’umiltà intellettuale di fronte al mistero.

Il “nulla” di cui parla Eckhart non è il nulla nichilista del pensiero moderno, ma il nulla fecondo che lascia spazio all’Assoluto. È un nulla che non nega, ma afferma per eccesso di positività. È il nulla che, come suggeriva Nicolas de Cues, è un “altro nome di Dio”.

Postfazione Ermeneutica

Ogni lettura è un’interpretazione, ogni interpretazione è una traduzione, ogni traduzione è un tradimento. Questo saggio su Eckhart non fa eccezione alla regola. Esso rappresenta un’interpretazione tra le possibili, un tentativo di leggere i testi eckhartiani attraverso la lente della semiologia e dell’ermeneutica contemporanea.

Eckhart stesso, del resto, era consapevole delle difficoltà ermeneutiche che il suo pensiero poneva. La sua dottrina dell’Uno al di là dell’essere non è una dottrina che può essere compresa razionalmente, ma una dottrina che deve essere vissuta esperienzialmente. È una dottrina che si rivela solo a chi ha percorso la via del distacco, a chi ha sperimentato il “nascere di Dio nell’anima”.

Forse, la lezione più importante di Eckhart non è quella filosofica, ma quella ermeneutica. Ci insegna che l’Assoluto non può essere posseduto come un oggetto, ma solo sperimentato come un processo. Ci insegna che la verità non è qualcosa che possiamo afferrare, ma qualcosa che ci afferra. Ci insegna che la filosofia, se vuole essere fedele al suo oggetto, deve assumere la forma di una mistica speculativa.

In questo senso, Eckhart non è un filosofo del passato, ma un filosofo del futuro. Un filosofo che ci indica una via d’uscita dall’impasse del pensiero moderno, che si è arenato nella dicotomia tra soggetto e oggetto, tra conoscenza e realtà. La sua via è quella dell’unità, dell’abbandono di ogni dualismo in favore di una visione integrale dove filosofia e mistica si contaminano reciprocamente.

Una via, questa, che rimane aperta e feconda per ogni epoca che abbia il coraggio di intraprenderla.

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